Tirate fuori le armi chimiche: che fine hanno fatto gli arsenali di Saddam?

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Continuamente nascono i fatti a confusione delle teorie, scriveva il diplomatico Carlo Dossi. Sembra che le vicende sviluppatesi negli ultimi due giorni abbiano capovolto ogni sorta di percezione iniziale sulla crisi siriana, mettendo in discussione un intervento militare praticamente nell’aria. I russi continuano a lanciare sabbia sui solchi tracciati dagli Stati Uniti, dove la coesione sulle operazioni militari è tutt’altro che scontata: da una parte il Pentagono si mostra riluttante all’idea di un intervento. Il generale Dempsey ha già asserito anzitempo che un attacco contro Assad rinforzerebbe le frange alqaediste tra i ribelli. Inoltre, l’opinione pubblica statunitense è sempre più scettica e preoccupata per quello che potrebbe rivelarsi come un vero e proprio effetto detonatore; in tal senso, il presidente siriano Bashar al-Assad ha giocato in anticipo, presentandosi davanti alle telecamere della CBS con un profilo basso e al contempo minaccioso: il leader della setta alwita rimarca che le sue forze non sono responsabili del “presunto” attacco chimico, ma in caso di intervento americano le reazioni non si faranno attendere. E tra le righe non va escluso nulla. Le risposte di John Kerry sono ormai da ascrivere alla categoria delle ambizioni personali, visto che perfino la maggioranza dei democrats è spaccata sull’intervento.

Ora, la proposta del Cremlino offre a Washington del tempo per riflettere e pensarci. Lo ha capito bene Hilary Clinton, che ha colto la palla al balzo. L’ex segretario di Stato si è mostrata cauta durante l’ultimo discorso, facendo intuire che gli Stati Uniti non sono poi così convinti di entrare in guerra contro Assad. Ma se la Russia riuscisse veramente a convincere la Siria a cedere il suo arsenale chimico, ciò comporterebbe il rinvio di un’azione militare americana almeno per qualche mese, legando Damasco a nuovi obblighi internazionali. Il processo concederebbe dunque ad Assad un’importante opportunità per guadagnare tempo e per scongiurare l’ipotesi di un intervento; nel senso che per l’amministrazione Obama sarà poi sempre più difficile riproporre una mozione militare contro il regime alawita.

“Sarebbe una buona occasione per rafforzare la Convenzione sulle armi chimiche, la cosiddetta CWC” ha constatato Michael Elleman, membro dell’Istituto internazionale di studi strategici. La Siria non sarebbe il primo Stato a consegnare le sue testate chimiche . Già sette paesi OPAC lo hanno fatto in passato; tra cui Albania , India, Stati Uniti , Russia, Giappone, Libiaendele e un paese anonimo, che con tutta probabilità è la Corea del Sud. Gli arsenali sono stati tutti distrutti. Elleman rende comunque esplicita qualche perplessità: “La mia preoccupazione è che i russi non faranno leva su Assad . Inoltre, il processo non potrà limitarsi esclusivamente alla riserva di armi. E’ opportuno che l’intero programma di produzione di testate chimiche sia ‘disinnescato’”. Secondo Richard Guthrie, un esperto britannico sulla guerra chimica e biologica, la fase di prelevamento presenterebbe una serie di problemi pratici di notevoli proporzioni “Lo spostamento di queste armi è molto rischioso. Sarà indispensabile creare una zona cuscinetto per evitare le fuoriuscite.”

Ma finora si tratta di pour parler. I siti di armi chimiche potrebbero trovarsi anche all’interno o in prossimità di basi militari. Una posizione tutt’altro che conveniente per compiere le operazioni di ritiro e prelievo. Inoltre, siamo così sicuri che a possedere testate chimiche sia soltanto il regime di Assad? A nessuno sorge il dubbio che la coalizione dei ribelli, o peggio ancora qualche frangia di Al Qaeda, sia in possesso di questo tipo di armi? Del resto, il Medio Oriente è da sempre terra di frontiera per il traffico illegale di armamenti.

Proprio vent’anni fa, il giornalista del Financial Times Alan Friedman scoprì uno scandalo successivamente ribattezzato “Iraq Gate”, in cui si denunciano i commerci illegali di armi chimiche e biologiche che negli anni ottanta hanno visto coinvolti il Presidente Bush Senior e il Segretario di Stato James Baker nei rapporti con Saddam Hussein; il dittatore iracheno sarebbe stato finanziato dagli Stati Uniti con miliardi di dollari e qualche “regalino” di fabbrica per sostenere la guerra contro l’Iran di Khomeini. Il dossier Friedman rivela che Bush e Baker avrebbero permesso l’esportazione di tecnologia degli Stati Uniti in grado di aiutare Baghdad a costruire un enorme arsenale di armi chimiche, biologiche e forse nucleari.

Visto che nel 2003, in occasione dell’intervento di George W. Bush contro il regime di Saddam Hussein, gli ispettori dell’Onu allora impiegati nella ricerca delle armi di distruzione di massa non trovarono nulla, i conti non tornato. Ipso facto, tra i ribelli siriani ci sono molti combattenti del “Fronte di Jahbat Al-Nusra”, la diramazione irachena di Al-Qaeda. La questione della presenza di armi chimiche nell’area potrebbe farsi davvero complicata, oscura e inintelligibile. Che fine hanno fatto quelle armi? Soprattutto, di che “tipo” di armi si tratta, oltre ai già noti gas nervini VX e Sarin?

Informazioni su Giacomo Fidelibus

Le grandi anime posseggono la volontà, quelle piccole solo i desideri --- Great souls have wills; feeble ones have only wishes.
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